Uno sguardo al fenomeno dei working poor

Che cosa s’intende con l’espressione “working poor”? Quali misure adottare per contrastare la povertà lavorativa? A queste e ad altre domande risponde il professor Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano

Se si guarda al fenomeno dei working poor, l’Italia risulta essere uno dei Paesi che presenta maggiori criticità in Europa. Stando ai dati Istat, questa condizione riguarda l’11,8% degli occupati dai 18 anni in su, contro una media europea del 9,2%”. Per raccontare una zona grigia tra lavoro e non lavoro, che produce incertezza e instabilità rispetto al futuro, Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano e autore di Storia demografica d’Italia, edito da Carocci, parte dai dati, utili per inquadrare l’attuale situazione del nostro Paese e provare a suggerire soluzioni verso cui orientarsi.

Ma che cosa si intende, esattamente, con l’espressione “working poor”?

“I working poor sono tutte quelle persone che hanno un reddito tale da non permettere loro di stare al passo con il costo della vita”. Si tratta di lavoratori che, nonostante guadagnino uno stipendio, fanno comunque fatica a garantirsi un’autonomia. In Italia, come anticipato, una simile condizione riguarda l’11,8% dei lavoratori e coinvolge soprattutto certe categorie specifiche:

“È molto più alta al sud e tende a essere maggiormente elevata tra i giovani adulti. Questi ultimi, pur avendo un lavoro, spesso vivono con i genitori e, così facendo, si difendono dalla povertà. Se si dovesse tenere conto anche di questa fetta di popolazione, che da sola ha trovato un rimedio, la percentuale di working poor sarebbe addirittura più elevata di quella attuale”.

In 24 dei 29 Paesi europei, come registra Eurostat, più di un adulto su tre di età compresa tra i 18 e i 34 anni vive a casa dei genitori; in Italia ciò vale per il 71% dei giovani. “Molti di loro sono purtroppo intrappolati in percorsi professionali di basso profilo”, commenta Rosina. “Lavorano, poi smettono, poi tornano a lavorare. E così la loro situazione non stabilizza”. Al contrario, si innesca un altro fenomeno, anch’esso molto diffuso nel nostro Paese e collegato a quello dei working poor, ovvero quello dei Neet: giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non sono né occupati né inseriti in un percorso di istruzione o formazione.

Tutti i numeri di un fenomeno diffuso

Secondo un report di Oxfam, nel 2018 il 13% circa degli occupati nelle fasce d’età 16-24 e 25-29 anni era working poor. Ad oggi, questo dato rimane sostanzialmente stabile, indicando come il fenomeno sia endemico nel nostro Paese. Lo stesso valore percentuale si ritrova anche allargando l’obiettivo in termini temporali e prendendo in considerazione l’intera popolazione italiana.

Secondo l’indagine europea EU-SILC, infatti, tra il 2006 e il 2017 la quota di working poor è salita dal 9,4% al 12,3%, registrando poi un calo negli ultimi sette anni. Ciò significa che, da circa un ventennio, in Italia più di un lavoratore su dieci non riesce a far fronte alle spese, nonostante percepisca un reddito.

Lo stesso studio sottolinea quanto la percentuale di working poor sia maggiore in determinate categorie: nel 2017, ad esempio, l’incidenza di povertà lavorativa era pari al 12,1% tra chi lavorava prevalentemente come dipendente e al 17,1% tra chi lavorava in prevalenza da autonomo. Inoltre, coerentemente con il fenomeno del gender pay gap, nello stesso anno i working poor erano il 16,5% fra gli uomini e al 27,8% tra le donne.

Quali misure adottare per contrastare la povertà lavorativa?

Il fenomeno dei working poor è, dunque, conseguenza di una situazione su cui è fondamentale intervenire al più presto, investendo in formazione e politiche attive del lavoro. Un primo e importante passo da compiere riguarda le nuove generazioni e consiste nel creare un vero e proprio ponte tra scuola e ambiente lavorativo. Come sottolinea Rosina, infatti, “Se registriamo la presenza di molti giovani Neet significa, anche, che la transizione scuola-lavoro non funziona. Nella migliore delle ipotesi i giovani si trovano con percorsi precari, da working poor. Invece bisogna formali, aiutarli a uscire dal percorso scolastico con competenze solide, rafforzare gli ITS e, al tempo stesso, la possibilità di proseguire con la laurea”. Inoltre, prosegue Rosina,

“Servono canali formali che favoriscano la corrispondenza tra competenze acquisite e richieste del mercato. E poi bisogna valorizzare i giovani una volta in azienda: non assumerli al massimo ribasso, ma perché portano competenze che rendono più competitivi”.

Ma le azioni da intraprendere per provare ad arginare il fenomeno dei working poor non possono e non devono limitarsi a riguardare i più giovani. Per provare ad agire in maniera efficace nel breve e medio termine, è necessario che le aziende e la politica intercettino il maggior numero possibile di persone che, ad oggi, sperimentano una condizione di povertà lavorativa, strutturando azioni trasversali. Un punto di partenza (ed estremamente dibattuto) potrebbe essere, ad esempio, garantire un minimo salariale adeguato all’inflazione o al costo della vita, che come è ben noto varia notevolmente anche solo di città in città – basti pensare al confronto tra Milano e Bari. Una seconda proposta potrebbe invece orientarsi verso la strutturazione di uno strumento specifico per integrare i redditi dei lavoratori poveri. Un’azione di questo tipo – in-work benefit in inglese – permetterebbe non solo di aiutare i cosiddetti working poor ma rappresenterebbe anche un significativo stimolo finanziario al lavoro.  Infine, si potrebbero prevedere incentivi alle aziende che favoriscono comportamenti virtuosi. Un esempio è il progetto inglese “Living wage” della Living Wage Foundation, che dal 2011 offre un sistema di accreditamento alle imprese che corrispondono salari di sussistenza calcolati in base a ciò di cui i lavoratori e le loro famiglie hanno bisogno per affrontare le spese e al costo della vita nella città di residenza.

Un Paese, in ultima analisi, si giudica anche dall’attenzione alle persone più vulnerabili. Nella complessità dei nostri tempi, purtroppo, capita che persino chi un lavoro ce l’ha sia esposto a difficoltà e disagi concreti. È dunque prioritario, per costruire una società e un mondo del lavoro più equi e inclusivi, intervenire per migliorare le condizioni di queste persone.