Universal Design: l’ingrediente indispensabile è l’ascolto

È possibile rendere luoghi, servizi e prodotti realmente accessibili a tutte le persone, indipendentemente dalle loro condizioni di salute? Secondo Matteo Moretti, Professore associato presso il Dipartimento di Design, Architettura e Urbanistica di Alghero, Università di Sassari, e Designer & Founding Partner di Sheldon.Studio, la risposta è sì.

“Per rendere luoghi, servizi e prodotti realmente accessibili a tutte le persone, indipendentemente dalle loro condizioni di salute, è indispensabile adottare un approccio cosiddetto universale – Universal Design –, che tenga conto delle necessità e delle caratteristiche di ogni individuo e basato sull’ascolto e il coinvolgimento attivo delle comunità, le quali hanno così l’opportunità di contribuire all’individuazione di bisogni, priorità e obiettivi“.

Ma per comprendere a fondo la rivoluzione rappresentata dallo Universal Design, è fondamentale conoscerne le origini e le caratteristiche principali.

Nato negli Stati Uniti alla fine del secolo scorso, questo movimento acquisisce sempre maggiore importanza grazie all’operato del suo inventore, l’architetto Ronald L. Mace, che per primo conia il termine “Universal Design” per descrivere “la progettazione di prodotti e ambienti utilizzabili da tutti, nella maggior estensione possibile, senza necessità di adattamenti o ausili speciali“. “Mace – ci ha spiegato Moretti – ha contratto la poliomielite a 9 anni e, quindi, è stato costretto a ricorrere all’utilizzo di una carrozzina per gran parte della sua vita. Questa esperienza personale ha fortemente influenzato il suo percorso professionale, che lo ha visto sempre battersi in prima linea per i diritti delle persone con disabilità”.

L’approccio al design teorizzato da Mace e dai suoi colleghi della North Carolina State University si basa su 7 principi: equità, flessibilità, semplicità, percettibilità, tolleranza all’errore, contenimento dello sforzo fisico, e misure e spazi sufficienti, ed evidenzia una spiccata attenzione e sensibilità alle necessità di tutte le persone, in particolare quelle più vulnerabili. A tal proposito, Moretti sottolinea come “il design sia una disciplina che, a partire dagli anni ’60 del 900, rivendica periodicamente le necessità di adottare un approccio più attento e consapevole verso le persone e l’ambiente”. Oggi questa attenzione va allargata e, quando si parla di progettazione accessibile, è necessario includere tutto ciò che avviene online: anche gli spazi virtuali devono essere inclusivi e utilizzabili con facilità da tutte le persone.

In un mondo in continua evoluzione e abitato da migliaia di diversità, quindi, l’Universal Design non può essere un obiettivo a breve termine, bensì un approccio che guarda al futuro mettendo in discussione radicalmente lo status quo e ragionando in termini sistemici.

“Servono progettisti in grado di ripensare il mondo”, afferma Moretti. L’errore di lettura più comune è limitare il miglioramento a interventi singoli che, per quanto indispensabili, sono circoscritti e, dunque, incapaci di rivoluzionare le nostre esperienze. “Non si può parlare di accessibilità solo quando bisogna costruire la rampa di ingresso a un edificio o progettare un parcheggio”.

“L’accessibilità deve essere parte integrante di tutti gli ambienti (virtuali e non), dei servizi e degli oggetti. Questa necessità ci viene dettata dalla realtà che circonda e dalle migliaia di modi che, le diverse persone, hanno di viverla”.

L’efficacia dello Universal Design è testimoniata da centinaia di esempi virtuosi, provenienti da tutto il mondo. “Nel 2017, il Governo della città metropolitana di Seoul ha sviluppato e diffuso le “Universal Design Guidelines”, per rendere più agevole e sicura la fruizione, da parte dei cittadini, di strade, parchi, piazze ed edifici pubblici”. L’approccio adottato dalle autorità sudcoreane nel redigere queste linee guida è di grande valore, poiché non si è tenuto conto solo delle disabilità motorie, ma anche delle barriere linguistiche, cognitive e di età: tutti elementi che possono impattare notevolmente il modo in cui uno spazio viene vissuto.

Anche nel nostro Paese ci sono diverse best practice legate all’adizione di un approccio Universal Design centrico. Un caso fra tutti è quello dei musei tattili, luoghi in cui si può accedere a percorsi espositivi che offrono la possibilità di sperimentare l’arte attraverso il senso del tatto. “Questi musei sono, in un certo qual modo, rivoluzionari. Non solo perché scardinano il classico approccio del “vietato toccare”, ma anche perché portano avanti un’importante azione di sensibilizzazione”.

Un altro spunto di riflessione proposto da Moretti riguarda la definizione del termine “disabilità”, che secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità è da intendersi come “il risultato – come si legge nel documento – dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. Leggendo queste brevi righe, appare evidente come sia necessario focalizzarsi, anche attraverso l’Universal Design, sui contesti nei quali le persone vivono, poiché sono questi ultimi ad essere escludenti. “Molto spesso, ciò che circonda – città, strade, servizi, oggetti, etc. – non è stato progettato affinché tutte le persone abbiano pari opportunità di accesso“.

Prendiamo un esempio magari meno immediato ma che, a mio avviso, può aiutarci a comprendere bene la trasversalità del fenomeno e le sue implicazioni. Pensiamo a come sta evolvendo il mondo della Pubblica Amministrazione, che sempre più spesso richiede ai cittadini di avere una PEC, di completare un’autenticazione a due fattori o di possedere uno smartphone e una connessione mediamente veloce per accedere a quasi tutti i servizi pubblici.

Questo approccio, per quanto ad oggi indispensabile ed efficace, sta di fatto escludendo una fascia della popolazione che, a partire dagli anziani o dalle persone meno alfabetizzate digitalmente, non ha i mezzi o le competenze per comprendere o svolgere queste attività. In questo caso si parla di digital divide, il divario che c’è tra chi ha un accesso adeguato a internet e chi non ce l’ha”.

“Le radici di questo nostro mancato ‘approccio universale’ sono, come spesso accade, culturali. Il modus operandi tipico, infatti, si basa sull’ignoranza, sul ‘si è sempre fatto così’ e sulla mancanza di ascolto”.

“Al contrario, quello che andrebbe favorito è un metodo bottom up, in cui si dà voce alle comunità e agli utenti, permettendo loro di contribuire al processo di individuazione di problemi e possibili soluzioni”.

Lo stesso approccio è valido per le aziende: l’ascolto e il coinvolgimento sincero e attivo di dipendenti e collaboratori è indispensabile per trovare soluzioni innovative a problemi che talvolta non si immagina neanche di avere.