Il “linguaggio ampio” come strumento per favorire la convivenza delle differenze

“Il linguaggio ampio ci permette di avere più modi per esprimersi, più chiavi comunicative per dire meglio le cose. È un linguaggio di continua ricerca e deriva da un’attività che si mette in pratica ancora troppo poco: interpellare e ascoltare le comunità interessate […]”. Vera Gheno, saggista, sociolinguista e divulgatrice, si occupa prevalentemente di comunicazione mediata tecnicamente, questioni di genere e DE&I, ed è una delle maggiori esperte italiane nell’ambito del linguaggio inclusivo, o ampio.

Partiamo dalle basi. Cosa si intende per linguaggio inclusivo?

Personalmente, non utilizzo il termine “inclusione”. Lo scrittore e divulgatore scientifico Fabrizio Acanfora descrive questa espressione come parziale, poiché non contribuisce a superare la differenziazione tra coloro che appartengono alle cosiddette maggioranze e chi, invece, viene identificato come “diverso”. Vista attraverso questa lente, l’inclusione è dunque monodirezionale: sono i più che si preoccupano di includere chi non rientra nella loro cerchia, nel loro gruppo. Sarebbe più corretto, invece, parlare di convivenza delle differenze, ed è per questo motivo che prediligo l’espressione “linguaggio ampio”.

Nonostante questa mia posizione, sono consapevole del fatto che, in ambito aziendale, si ricorra al termine “inclusione”. Non credo sia per forza necessario rottamarlo, bensì ritengo sia importante valutarne i limiti concettuali e, dunque, utilizzarlo con consapevolezza.

Parliamo dunque di linguaggio ampio: come lo descriverebbe?

Il linguaggio ampio presta attenzione a una serie di condizioni e caratteristiche dell’identità umana che, se fraintese, possono esporre le persone a forme di marginalizzazione o discriminazione. Alcuni esempi sono il sesso, l’etnia, le condizioni di salute ed economiche, l’età e il credo religioso.

Le riflessioni su comunicazione e linguaggio possono aiutarci a migliorare il nostro rapporto con le persone, soprattutto con coloro che subiscono discriminazioni. Ovviamente, queste riflessioni, da sole, non sono sufficienti, ma tra il livello della lingua e quello dell’azione si possono innescare circoli virtuosi capaci di contribuire in maniera significativa al cambiamento.

Come replicherebbe a chi sostiene che il dibattito inerente alle parole e al loro corretto utilizzo sia una sorta di pruderie?

Con le migliori intenzioni c’è sicuramente il rischio di diventare iper-zelanti, ma credo che la pruderie sia quella di pensare che una cosa non vada chiamata col suo nome. Questo atteggiamento ci porta, ad esempio, a dire “non udente” o “non vedente”, come se “sordo” o “cieco” fossero un’offesa.

Un altro punto da tenere in considerazione è il fatto che il nostro cervello funziona in modalità risparmio energetico: in molti casi non si ha voglia di fare uno sforzo in più per scoprire, apprendere e utilizzare una nuova parola o espressione, ma è proprio attraverso questo sforzo che si allargano gli orizzonti del proprio vocabolario.

Il linguaggio ampio, infatti, ci permette di avere più modi per esprimersi, più chiavi comunicative per dire meglio le cose. È un linguaggio di continua ricerca e deriva da un’attività che si mette in pratica ancora troppo poco: interpellare e ascoltare le comunità interessate e chiedere loro come vogliono essere definite e chiamate.

Uno dei temi più dibattuti è quello del maschile sovraesteso. Perché questa pratica andrebbe temperata?

Rispetto a un tempo, siamo più consapevoli riguardo le conseguenze dell’utilizzo del maschile sovraesteso. Quando si tratta di rivendicazioni di comunità, come quelle femminista e LGBTQ+, occorre tener conto che a una maggiore visibilità linguistica corrisponde una maggiore visibilità culturale. Ergo, nominare le differenze serve per renderle più visibili nella società: riconoscendo, attraverso le parole e, in questo caso specifico, la declinazione femminile o neutra (schwa), l’esistenza di un gruppo di persone, si ha modo di relazionarcisi di più.

Una maggiore chiusura mentale non deriva forse anche dal fatto che alcune persone non fanno esperienza della diversità?

Ognuno di noi ha coloratissime esperienze della realtà. L’atteggiamento che si ha verso la diversità dipende da un istinto di paura nei confronti dell’altro, che, come dice Telmo Pievani, docente di Filosofia delle Scienze Biologiche all’Università di Padova, è strutturale. Come risolvere questa paura? Con la curiosità. Non servono esperienze esotiche, perché fortunatamente la vita fornisce ogni giorno infinite opportunità di conoscenza.

Tornando a parlare strettamente di lingua, nella nostra quotidianità e sul luogo di lavoro, quando facciamo riferimento ad argomenti relativi all’ambito della DE&I, ricorriamo spesso a termini che ci arrivano dagli USA. Come mai?

Di alcuni tipi di varietà si sono rese conto prima altre lingue: per quanto riguarda le questioni di genere, ad esempio, gli Stati Uniti sono più avanti di noi e, per questo, è abbastanza naturale prendere il lessico anglofono come punto di riferimento. Questo, però, non toglie che in molti casi sarebbe più opportuno usare un lessico italiano, anche per una questione di accessibilità.

Spostiamo la lente d’ingrandimento sul mondo del lavoro. Cosa possono fare le aziende per imparare a utilizzare meglio il “linguaggio ampio”?

Varrebbe la pena fare un passo indietro e chiedersi quanta diversity ci sia, realmente, in azienda. Partire da questa domanda è fondamentale, perché lavorare sulla comunicazione senza avere costruito prima un ambiente in cui le differenze possano realmente convivere è privo di senso e non porta ad alcun cambiamento concreto e duraturo.

Infatti, se su decine di migliaia di dipendenti ci sono solo uomini e donne bianchi, è necessario interrogarsi sul proprio operato. Il punto, però, non è portare improvvisamente l’azienda a diventare variegata, ma riflettere sul perché ci siano popolazioni così uniformi. La comunicazione può aiutare, ma senza best practice diventa una verniciatina.

Tanti lavori in corso, dunque. Come legge il momento storico attuale?

Siamo in un periodo di reazione in cui c’è molta paura ma, nonostante ciò, sembra che le cose stiano cambiando. La società sta mostrando sempre più interesse nei confronti di tutto ciò che è legato alla DE&I, ma questo interesse va canalizzato verso un dibattito più generativo e meno sterile e, per farlo, è necessario lavorare sull’educazione alla complessità.

In una società, dunque, che aspira alla positiva convivenza delle differenze su un piano di rispetto, pari opportunità e dignità, le riflessioni su comunicazione e linguaggio sono essenziali per tutelare in particolare persone e gruppi che sono quotidianamente vittime di discriminazioni.

Un obbiettivo che Fondazione Adecco persegue ogni giorno, consapevole che il linguaggio e le parole non si limitano a fare una fotografia della società in cui viviamo, ma ne condizionano la rappresentazione e la vita degli attori coinvolti.