Il lavoro è il miglior “integratore” dei rifugiati

Famiglia Cristiana

13 Luglio 2017

Di fronte a temi complessi, è una questione di punti di vista che si assumono. Quello di una delle più grandi multinazionali al mondo di selezione del personale non lascia spazio a dubbi: «L’impiego dei rifugiati è una scommessa vitale per affrontare gli squilibri del mercato del lavoro», dice Alain Dehaze, l’amministratore delegato mondiale del Gruppo Adecco. E continua: «Altrimenti si prevede una perdita di 10 trilioni di dollari o un 10% del Pil mondiale entro il 2030». La sfida è talmente grande che si fa fatica a visualizzarne la dimensione: un trilione vuol dire mille miliardi, o un milione di milioni.
Nel 2015 sono giunti in Europa oltre un milione di profughi. Più uomini (73%) che donne, con un livello di istruzione molto vario, ma soprattutto giovani: l’82% ha meno di 35 anni, contro il 37% del resto del Vecchio continente. Eppure troppo pochi lavorano. O meglio, i tempi dell’inserimento professionale sono eccessivi: nell’Ue ci vogliono 5 anni per integrare nel mercato il 50% di chi ha la protezione umanitaria, 15 per arrivare al 70%. Dehaze sottolinea: «Questo anche se il 70% di coloro che richiedono asilo è in età lavorativa e la maggior parte desidera un impiego. Le barriere sono le complessità burocratiche, le lunghe attese prima che il lavoro sia legalmente possibile, la mancanza di certificazione delle qualifiche e delle competenze linguistiche». Per il capo del Gruppo Adecco il loro inserimento non è in concorrenza con quello della popolazione locale: «La questione importante è come sviluppare capacità di inserimento per tutti coloro che faticano a trovare un impiego, dai giovani disoccupati a chi ha un handicap o esce dal carcere. Per tutti il lavoro è il miglior integratore». In Europa i modelli sono diversi: in Francia, per esempio, le aziende delle costruzioni sono obbligate per legge al 6% di assunzioni sociali.
L’intermediazione tra profughi e aziende può essere decisiva. In Camerun Alain Foka aiutava nella pescheria del padre: a Roma nel tempo libero frequentava il mercato di piazza Vittorio per imparare i nomi dei pesci in italiano. Fondazione Adecco ha saputo cogliere questa propensione, avviandolo a un tirocinio di sei mesi presso il reparto pescheria di un’azienda enogastronomica, poi divenuto un contratto. Il libico Khaled invece è un biologo, lui e due dei suoi quattro figli sono disabili: quando è scoppiata la guerra, ha perduto un fratello. «Passava il tempo ma non trovavo nulla», racconta, «ho cercato di tutto per sostenere la mia famiglia». Il Gruppo Adecco lo ha aiutato a individuare un lavoro adatto alla sua qualifica: oggi lavora in un’azienda farmaceutica che produce la medicina che cura la sua stessa patologia.
Insomma, le storie positive ci sono ma tanto ancora può essere fatto. Nel Report “L’integrazione dei rifugiati nel mercato del lavoro” il Gruppo Adecco e l’Università di Heidelberg indicano alcune linee guida. Occorre non perdere tempo nell’avviare gli inserimenti, puntando sull’apprendimento della lingua, il riconoscimento delle competenze acquisite nei Paesi di origine, la flessibilità iniziale delle aziende e la disponibilità a investire nella formazione, mentre i Governi dovrebbero accelerare l’ottenimento dei documenti.