No, tu qui non lavori

Corriere della Sera Buone Notizie

10 Ottobre 2017

Danilo Massimi ha 25 anni, abita in provincia di Roma e ha un’invalidità del 74 per cento, per un ritardo mentale e per problemi di vista. Nel 2009 si è diplomato in un istituto tecnico industriale: «Da allora ho iniziato a cercare lavoro, ma per sette anni sono rimasto a casa. Alcuni colloqui, brevi esperienze, ma per troppo tempo nessuna azienda mi ha preso con sé». Danilo racconta la sua storia sul sito disabili.com e punta il dito contro la legge 68/99, quella che avrebbe dovuto assicurargli un «lavoro». La legge è ben strutturata e ha come finalità «la promozione dell’inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone disabili». Un obiettivo osteggiato ancora da troppe aziende, in teoria obbligate ad assumere, ma di fatto disposte a pagare la pesante sanzione di 153,20 euro al giorno pur di «non accollarsi» un solo disabile.
Una resistenza segnalata dai punti d’osservazione più coinvolti nel problema. È il caso di Fish, la Federazione italiana per il superamento dell’handicap, a cui aderiscono le 36 principali associazioni per l’inclusione sociale delle persone con disabilità. «La realtà – denuncia il presidente Vincenzo Falabella – è abbastanza catastrofica, perché nelle aziende persiste uno stigma molto forte contro la presunta improduttività dei disabili». Eppure il pregiudizio che fa temere di prendersi in carico un peso morto è smentito anche da autorevoli ricerche internazionali. McKinsey, la multinazionale americana della consulenza, ha realizzato l’Organizational Health Index che misura la «salute» aziendale su nove parametri e l’ha applicato all’inserimento di persone con sindrome di Down. Il risultato è che la loro presenza ha migliorato la condizione aziendale in cinque di quei nove indicatori: leadership, soddisfazione dei clienti, risoluzione dei conflitti, motivazione dei dipendenti e clima interno. In Italia i disabili definiti “gravi” dall’Istat, cioè con pesanti limitazioni nelle «funzioni motorie, sensoriali o nelle attività essenziali della vita quotidiana», sono circa 3,1 milioni. Il Censis, da parte sua, fa una previsione preoccupante: nel 2020 saranno 4,8 milioni, una crescita probabilmente imputabile all’invecchiamento della popolazione. «C’è però un pesante problema di terminologia – precisa Falabella – esistono 35 definizioni diverse di disabilità, ogni leggina dà la sua. Fare statistiche, quindi è quasi impossibile». Non a caso il dato Istat, che è il più recente e completo, è stato pubblicato nel 2015 ma si riferisce al 2013, anche se l’Istituto di statistica ha promesso di mettere a punto un «Registro delle disabilità» entro il 2018. Secondo l’Istat, comunque, di quei 3,1 milioni di disabili «gravi» sono in età lavorativa (15-64 anni) non più di 549 mila persone ma, di queste, lavora solo il 19,7%. I numeri si dilatano se si considerano le disabilità eufemisticamente definite «lievi» dall’Istat, ma che comprendono, tra l’altro, handicap motori, cecità, mutismo, sordità, insufficienza mentale e disturbi del comportamento. In questo segmento ci sono circa 4 milioni e 600 mila persone in età lavorativa, delle quali risultano occupate il 46,9%. Tenendo conto che, alla stessa data del 2013, il tasso di occupazione per tutta la popolazione italiana è del 55,1%, sembra che per i «lievi» la situazione non sia pesantissima, ammesso che le percentuali non siano peggiorate negli ultimi quattro anni. «Per quanto ci risulta – spiega Falabella – non è cambiato molto. Resta comunque il fatto che i Centri per l’impiego non funzionano nell’inserimento efficace dei disabili e che l’evasione aziendale dall’obbligo è ancora diffusa, spesso celata sotto la maschera di esoneri autorizzati dalla legge».

 

Ci sono tuttavia anche situazioni di eccellenza, tra cui quella di Monza Brianza. «Negli ultimi 15 anni – sottolinea il referente del collocamento mirato Gianpaolo Torchio – tra tutti i disabili passati dal nostro ufficio il 53% lavora. Una percentuale che sale al 70% se escludiamo chi oggi non è più iscritto ai nostri elenchi». Note di ottimismo arrivano anche da chi lavora per facilitare gli inserimenti, come la Fondazione Adecco per le pari opportunità. «Notiamo nelle imprese una maggiore attenzione nell’inclusione dei disabili – commenta il segretario generale Giovanni Rossi – non più considerati come fastidi obbligati da relegare in una riserva indiana, ma come risorse. Noi ogni anno seguiamo circa 500 persone, aiutandole a preparare i curricula, addestrandole per i colloqui di selezione e nella scelta delle aziende a cui proporsi. Al termine dei nostri percorsi il 51% trova lavoro e, dopo un anno, il 75% è ancora impiegato». Nascono anche iniziative private puntate all’inserimento. Secondo l’Agenzia per il lavoro e-work si tratta di professionisti già sperimentati all’estero che muovono i primi passi in Italia. «Il loro ruolo – spiega l’amministratore delegato Paolo Ferrario – è di valorizzare l’autonomia delle persone con disabilità conciliando le singole specificità con l’organizzazione aziendale».